Se la prima gestazione a lieto fine di questo tipo risale al 1988, con gli anni la pratica si è progressivamente diffusa, anche se un registro ad hoc esiste soltanto negli Stati Uniti. Da qui la volontà di approfondire gli esiti, maturata da cinque specialisti del Degasperis Cardio Center dell’ospedale Niguarda di Milano: nel 2017 il secondo centro italiano per casistica di trapianti di cuore, dopo il policlinico di Padova.
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I ricercatori, in uno studio pubblicato sulla rivista «Transplantation», hanno descritto le gravidanze portate a termine da 11 donne sottopostesi a un trapianto di cuore nella loro struttura, tra il 1985 e il 2016. Tutte concluse «senza complicazioni o episodi di rigetto gravi». E nessuno dei 12 bambini - una donna ha avuto due figli - «è nato con importanti difetti», né a oggi «presenta i segni di una malattia cardiaca», sebbene la metà delle mamme sia ricorsa al trapianto per una cardiomiopatia ereditaria.
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SÌ ALLA GRAVIDANZA, MA CON ALCUNE CAUTELE
Le conclusioni di questo lavoro portano dunque a rassicurare le donne che, dopo essere state sottoposte a un trapianto di cuore in età fertile, desiderano avere un figlio. Un’ambizione legittima, se si considera che l’obiettivo di un intervento così invasivo è proprio quello di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita di un paziente. Il desiderio di genitorialità, con riferimento a quest’ultimo punto, è una delle manifestazioni più significative: divenuto più diffuso al crescere dei tassi di sopravvivenza, che per il trapianto di cuore si assesta attorno al settanta per cento a dieci anni dall’intervento.
Come per chi è reduce da un cancro, non esistono divieti categorici. Ma alcuni consigli da seguire alla regola, sì. «Ragionevole» è considerata infatti una gravidanza singola, affrontata quand’è passato almeno un anno dal trapianto, «da donne molto motivate, con un rigetto sotto controllo e senza una vasculopatia cardiaca da allotrapianto»: condizione che può insorgere nei pazienti che hanno ricevuto un nuovo organo, riducendo in maniera significativa la loro prospettiva di vita. Gli esperti sconsigliano un numero superiore di parti, «per evitare una maggiore esposizione a rischi emodinamici e immunologici».
I RISCHI DA CONSIDERARE
Per quanto i risultati presentati siano rassicuranti, esistono infatti delle complicanze che possono accompagnare una gravidanza affrontata da una persona trapiantata. Per lei, costretta a ridurre il dosaggio degli immunosoppressori, con un rischio aumentato di rigetto. E per il feto, che rischia di essere danneggiato dagli stessi farmaci, oltre che di nascere con un peso talvolta troppo basso. Altro aspetto da illustrare ai desideranti genitori - in assenza di linee guida ufficiali - è quello di «poter trasmettere una malattia cardiaca ereditaria». Così come occorre essere chiari in merito alla loro prospettiva di vita, «comunque inferiore rispetto alla popolazione generale, anche dopo il trapianto».
Precisazioni che meritano di essere fatte fin dall’inizio, perché le donne che hanno superato un trapianto di cuore ed evitato un rigetto, secondo gli esperti, corrono il rischio di sottovalutare un evento come la gravidanza.
«Avendo messo alle spalle condizioni spesso molto gravi, sono portate a non considerare i rischi che permangono e a sottovalutare l’eventualità che un figlio possa rimanere orfano prima di essere diventato adulto», è quanto messo nero su bianco nella ricerca. Una gestante in queste condizioni deve sapere che l’ipertensione, la preeclampsia e le infezioni possono essere più frequenti. Lo stesso vale per le condizioni del diabete, in una donna diabetica già da prima di affrontare la gravidanza.
SÌ AL PARTO NATURALE, NO ALL’ALLATTAMENTO AL SENO
Lo studio in questione ha restituito alla comunità scientifica i risultati migliori mai registrati prima tra i gruppi di donne che hanno affrontato una gravidanza dopo un trapianto di cuore. In nessun’altra analisi era infatti era stato registrato un tasso del cento per cento di bambini nati vivi, senza peraltro casi di disfunzione d’organo o rigetto. Frequente è stato però il riscontro del basso peso alla nascita dei neonati, ricondotto alla somministrazione nelle donne della ciclosporina: che può determinare una conseguenza di questo tipo.
Dieci gravidanze su dodici si sono concluse con un parto cesareo, ma in linea teorica non ci sono problemi nel ricorrere al parto vaginale che, anzi, «sarebbe sempre da incentivare, tranne nei casi di complicanze ostetriche». Più difficile invece poter garantire l’allattamento al seno, che tra le donne coinvolte nello studio è stato portato avanti soltanto da una. Gli esperti raccomandano infatti una quanto più precoce ripresa della terapia immunosoppressiva, incompatibile con le esigenze alimentari del neonato.