Giovani in azione: Martina Bianchi – Di Astrid Panizza

Il peso di un respiro: la felicità dopo un doppio trapianto di polmone appena fatto

 

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Eccola, Martina, al Centro trapianti del Policlinico di Milano, raggiante dopo aver subito appena due settimane fa il doppio trapianto di polmone.
Vedendola qui in foto nessuno potrebbe pensare a un’operazione del genere, men che meno sentendo Martina (come sto facendo io) in diretta Skype dall’ospedale. 
Ascoltando come parla verrebbe da pensare che la sua serenità e la sua gioia di vivere non possono conciliarsi con una malattia talmente grave e con intervento così importante e rischioso. 
E invece è tutto il contrario.

Martina Bianchi ha 22 anni, viene da Mori, studia biotecnologie all'Università di Trento e da quando è nata convive con la Fibrosi Cistica, chiamata anche «malattia che non si vede», perché non mostra segni apparenti sulle persone che ne sono affette. 
«È una malattia degenerativa – mi spiega Martina – colpisce soprattutto polmoni e apparato digerente. In Italia una persona su 25 è portatrice sana e non lo sa perché non mostra sintomi.
«Può capitare quindi che due portatori sani abbiano un figlio malato, senza sapere neppure dell'esistenza della malattia. 
«Donare alla ricerca vuol dire quindi non solo aiutare gli altri, i malati che hanno bisogno di nuove cure, ma anche se stessi, perché potrebbe capitare a tutti.
«Il gene mutato, quello che porta la malattia, è veramente diffuso, nascono 4 bambini con la fibrosi cistica ogni settimana quindi – mi spiega Martina –- c'è bisogno di tanta informazione e soprattutto prevenzione prima, per fare in modo che grazie alla ricerca, i bambini che nascano non soffrano di questa patologia.
«Ad oggi l'aspettativa di vita di un malato di fibrosi cistica è sui 40 anni, però ci sono tanti ragazzi che ci lasciano molto prima, anche se la ricerca sta facendo grandi passi avanti.»

Questa breve introduzione che mi ha spiegato Martina mi è servita per capire meglio di che si tratta, e per darvi una piccola introduzione di quello che ora ci racconta, concentrandoci più su quello che ha vissuto lei...
«La mia storia è quella di una ragazza normale, portatrice di una patologia che fino alla quinta superiore è stata gestibile, seppur fossi seguita regolarmente dal centro Fibrosi Cistica di Verona fin da piccola. 
«La situazione è andata peggiorando inaspettatamente circa 5 anni fa, a causa di continue infezioni polmonari che mi hanno costretta a numerosi ricoveri in ospedale. 
«I primi due anni di Università ero quasi sempre ricoverata e quando non ero in ospedale ero a casa attaccata alle flebo quasi ininterrottamente. Mi sentivo sempre stanca, con febbre e stanchezza per la maggior parte delle giornate... vedevo la mia vita molto, molto limitata.»

Martina con la mamma e la zia.

«È stato allora – continua a raccontarmi Martina, ricordando con precisione – che con i medici abbiamo deciso fosse il momento di inserirmi nella lista per il trapianto di polmoni. In questi due anni la situazione si era assestata, devo dirti la verità. Pur continuando a fare flebo ogni giorno, nonostante i miei polmoni fossero marci - dalle immagini della tac, infatti, si vedevano dei veri e propri crateri, ci confida - stranamente avevo più forza, e riuscivo a frequentare regolarmente, o quasi, l'Università. 
«Per questo ero arrivata al punto che di dire ai dottori che preferivo aspettare di laurearmi a marzo del 2019 prima di affrontare eventualmente il trapianto. 
«Devo aggiungere, però, che dopo due anni di somministrazione continua di antibiotici c'era un aumento di resistenza da parte del batterio presente nei miei polmoni, che scientificamente si chiama Pseudomonas aeruginosa, ma che io ho sempre chiamato simpaticamente Pseudomona, quasi fosse qualcosa di familiare, come effettivamente è stato, un compagno costante nella mia vita di tutti i giorni, fino al trapianto.»

Studi biotecnologie, la scelta dell'Università è stata influenzata dalla tua malattia?
«All'inizio devo dire che non ero affatto decisa su che facoltà scegliere, poi quando ho provato il test e sono stata accettata ho pensato che fosse la strada giusta per me, e ora come ora non mi pentirei mai di questa scelta! 
«La biotecnologia nella ricerca ha un ruolo più che fondamentale, non so se la malattia abbia influenzato questa mia scelta, ma ora come ora so che vorrei proprio fare la ricercatrice, sarebbe la realizzazione di un sogno, per poter dare un aiuto concreto non solo per cercare cure per la fibrosi cistica, ma anche per moltissime altre malattie. 
«Mi piacerebbe poterlo essere in Italia e spero che un giorno qui ci siano le condizioni per dare un sostegno concreto al mondo della ricerca, abbiamo tante cose da offrire e ci sarebbe un mondo da sostenere. Se solo si avesse qualche mezzo in più si potrebbe davvero fare grandi cose.
«Credo però che per un periodo, salute permettendo, andrò all'estero, così raggiungo anche il mio fidanzato, che studia in Germania.»

Qual è l'approccio delle persone quando vengono a sapere che hai la fibrosi cistica?
«Normalmente non è un problema, ma ti racconto una cosa divertente che mi è capitata spesso quando in inverno, alle superiori, mettevo la mascherina per evitare che i batteri attaccassero il mio sistema immunitario. 
«Il fatto è che quando le persone vedevano me con la mascherina pensavano che avessi la peste o qualcosa di molto contagioso, quindi per esempio salendo sull'autobus, si creava un sacco di spazio attorno a me. 
«Se magari facevo un colpo di tosse, trovavo immediatamente un posto libero: incredibile no? Anche nelle sale d'aspetto – aggiunge Martina sorridendo – se ero stanca ho sfruttato la mascherina a mio vantaggio trovando un posto a sedere non appena mi avvicinavo a persone che scappavano a gambe levate.»

È bella la filosofia con cui prendi la malattia, la fa sembrare più «leggera». Hai una filosofia particolare da seguire?
«Sì, è vero, secondo me è necessario prendere la malattia con una certa leggerezza, anche se poi ognuno ha un modo suo per affrontarla. Io ho avuto dei genitori che mi hanno sempre lasciato scegliere quello che volevo fare, non mi hanno mai precluso nessun tipo di esperienza, anche quando stavo peggio e mi era più difficile fare alcune cose.
«Penso che questo sia importante, non partire con la mentalità del malato vittima perché se poi la situazione peggiora è più difficile venirne fuori. 
«Se fai sempre la vittima, ad un certo punto ti chiedi Ma chi me lo fa fare?
«Se invece sei riuscito a viverti un'esistenza più o meno normale, in mezzo alle altre persone, divertendoti e prendendo il meglio della vita, ecco, nei momenti più difficili riesci a ricordarti ciò che facevi e magari non riesci più a fare, ma con la speranza che con la fisioterapia si possa ritornare a farlo. 
«Poi, sinceramente, è tutta una questione di routine mentale e essere nati con questa malattia ti fa sembrare, in un certo senso, come se questi problemi facessero parte della normalità.»

Cos'è successo quando ti hanno chiamata per il trapianto?
«Stavo facendo la mia solita vita, ma pensa il destino... ho finito il tirocinio venerdì 7 dicembre [poco più di due settimane e mezzo fa – NdR], quando due giorni dopo, tempismo perfetto, mentre facevo fisioterapia ho visto che mi chiamava al cellulare un numero sconosciuto. 
«Non volevo rispondere, ero stanca e credevo fosse qualcuno di sconosciuto che magari voleva rifilarmi qualche promozione. Quando però, all'altro capo della cornetta ho sentito una voce che chiamava dal centro trapianti di Milano dicendo che c'erano dei polmoni per me, credo di essere sbiancata.
«Ho messo giù e ho guardato mia mamma. Le ho detto semplicemente: Andiamo a Milano?
«In tempo dieci minuti casa mia era piena di parenti che piangevano o aiutavano a fare i bagagli, nel minor tempo possibile. Io ero come in trance e lo sono stata praticamente finché non sono entrata in sala operatoria.»

Com'è stato il viaggio verso Milano?
«Considera che era il 9 dicembre, la fine del ponte dell'Immacolata. Panico! C'era coda in autostrada e per un trapianto bisogna arrivare al centro in massimo tre ore dalla chiamata. 
«Mia mamma ha allora chiamato la polizia stradale e dal casello di Verona Nord siamo stati scortati con le sirene ai 180 km orari fino a Milano. 
«A un'ora e mezzo dalla partenza a Mori, ero già in pronto soccorso che mi stavano facendo gli esami del sangue in preparazione all'intervento.»

Sei quindi entrata subito in sala operatoria?
«No, no. Dopo gli esami di preparazione, di prassi ti lasciano in una stanza. Mi hanno detto di riposare per un po' che sarebbero venuti successivamente a dirmi se era tutto ok. Seee ciao, riposare. Una parola! E'giusto dire, però, che i dottori e gli infermieri sono stati sempre carini, sono dei cuoricini per davvero.
«Dopo qualche ora, un tempo che non finiva mai, è entrato in stanza un infermiere, un signore enorme, che mi ha detto: Ciao Martina, sono il tuo angelo custode, fra dieci minuti ti portiamo in sala operatoria
«La mia mamma è scoppiata a piangere, mentre io mi trovavo ancora in uno spazio temporale tutto mio, in cui praticamente non capivo nulla. In realtà, ho realizzato quello che era successo, solo qualche giorno dopo l'intervento. Per questo, quando sono arrivati con il lettino per portarmi via, ero tranquillissima. 
«Nel frattempo avevo informato il mio moroso di quello che stava accadendo e quando, poi, finito il trapianto ho aperto gli occhi in terapia intensiva, lui era lì con me, dopo essere tornato di corsa in Italia dalla Germania.»

Sono passate poco più di due settimane: come sta andando il recupero?
«Prima ancora del trapianto è importante essere in buono stato fisicamente e in questo periodo, per fortuna, seguivo alla lettera gli allenamenti che mi avevano dato da fare. Grazie anche a questo posso dire quindi che il recupero sta procedendo rapidamente. 
«Mi hanno fatta uscire dalla terapia intensiva il prima possibile e mi hanno mandata in reparto per evitare infezioni, in quanto ora sono immuno-depressa essendo trapiantata. Le persone che mi vengono a trovare devono indossare tassativamente camice e mascherina per non trasmettermi agenti esterni.
«Pensa che non posso nemmeno ordinare cibo da fuori, sto quasi impazzendo – sorride Martina. – Già il secondo giorno i medici mi hanno fatta uscire dal letto, e adesso mi hanno già messo sotto con gli esercizi, mi fanno fare squat [piegamenti sulla ginocchia – NdR] e affondi, e se magari mi arrischio a dire che non ce la faccio mi prendono anche in giro. 
«Cercano di spingermi perché dia il meglio di me nonostante abbia mille tubicini che escono dal corpo, con tutta la buona volontà ti assicuro che quello è un po' scomodo!
«Durante il giorno faccio mille esami oltre all'esercizio fisico, ci sono giorni che sono proprio piena di lavoro, non sembra ma anche tra le mura dell'ospedale c'è un sacco da fare.»

Hai visto in questo periodo dei cambiamenti rispetto a prima?
«Il cervello, per capire che ha dei polmoni nuovi ci mette sei mesi, quindi in questo tempo dovrò allenarmi un sacco per fare in modo di riuscire ad espanderli al massimo. La massima potenzialità si raggiunge in genere dopo un anno. Ma non dovrò mai mollare, bisogna sempre starci dietro, perché se mollo io, mollano anche loro.
«Il trapianto non è, tuttavia, una cura definitiva della malattia perché, nonostante i polmoni siano quelli di una persona sana, il corpo è comunque quello di un malato e un trapiantato ha da affrontare tutti i rischi e i problemi correlati, essendo immunosoppressa quindi dovrò prestare massima attenzione a non contrarre infezioni, perché un semplice raffreddore potrebbe portarmi in ospedale. 
«Inoltre il rigetto è un'altra problematica importante, quando cioè il corpo riconosce l'organo trapiantato come estraneo. In alcuni casi si può curare, mentre nei casi più gravi, quando non c'è nessun'altra alternativa, si trapianta di nuovo. Ma penso positivo, vado avanti con il sorriso, senza paura.»

Che forza Martina! Complimenti!
«Pensa che da domani i medici mi porteranno anche la cyclette in camera, oltre agli esercizi giornalieri dovrò pure usare quella, immagina la mia felicità nel pedalare fino allo sfinimento! – Dice in tono sarcastico. – Però le gioie ci sono, adesso a fare allenamento non uso più l'ossigeno, che prima del trapianto era mio compagno di sventure. 
«In più, ho saputo in questi giorni che fra qualche tempo potrò ricominciare a ballare, una mia grande passione che da qualche anno ho dovuto sospendere perché il mio corpo non riusciva a starci dietro.
«Inoltre la mia capacità di respiro è già aumentata. Non c'è stato un cambiamento da così a così, immediato, ma ci sono tante piccole cose che mi fanno venir voglia di scoprire cos'altro cambierà nel futuro che mi aspetta!»

Cosa diresti alle persone che non conosci per fare in modo che donino per aiutare la ricerca sulla fibrosi cistica?
«La consapevolezza è molto importante. Ad esempio se si vuole evitare la nascita di un bambino ammalato basta fare il test, un semplice prelievo di sangue in cui si analizzano i geni, e se entrambi i futuri genitori risultassero portatori decideranno loro come procedere. Per questo donare alla ricerca significa aiutare se stessi oltre ai malati che hanno bisogno di nuove cure, più efficaci. 
«Poi, lasciami dire che le persone che hanno questa malattia hanno tanto da dare, ma tanto gli viene precluso. Ogni patologia è importante a suo modo, io sono un po' di parte ovviamente, però ti assicuro che la Fibrosi Cistica è una malattia che colpisce in una maniera subdola e silenziosa. 
«Quando sono ricoverata nel centro di Verona vedo situazioni di ogni genere. Mi colpiscono soprattutto i bambini, quelli che a tre mesi sono ricoverati da quando sono nati, oppure altri di tre anni che sono lì da sei mesi con le loro mamme, le quali, ovviamente, vivono anche loro quel periodo di sofferenza in ospedale. E nonostante tutto quei bambini sorridono, mi guardano con i loro occhioni grandi con un'innocenza che sembra inimmaginabile. 
«O ancora, ci sono ragazzi come me, che a vent'anni si trascinano una bombola d'ossigeno in ospedale e magari fuori riescono a non usarla, ma nessuno vede quanto debbano farsi il mazzo tutti i giorni per poter stare così. Perché le terapie giornaliere, che si fanno tra le mura di casa, non sono solo prendere medicine, ma spendere ore e ore con flebo attaccate mentre si fa l'aerosol, compiere esercizi di ogni genere, fisici o respiratori, per poter riuscire a fare una vita che possa essere almeno simile a quella di tutti gli altri.
«Credo che tutti si meritino di vivere serenamente, affrontando ogni giorno con il sorriso sulle labbra.
«La Fibrosi Cistica potrebbe capitare a chiunque, non è che io ho fatto qualcosa per tirarmi addosso questa malattia.
«Poteva capitare ad un altro.
«E se fosse capitato a te?
«Dona, per gli altri e anche per te.
«Perché tutti possano vedere il sole sdraiati su di un prato, e non nel letto di un ospedale, perché il profumo dei fiori si possa annusare a pieni polmoni, senza il peso della bombola d'ossigeno e senza il peso del respiro che, con la Fibrosi Cistica, non ti lascia vivere a colori.»

Astrid Panizza – Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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