Trapianti d’organo:
la proposta del premio
Nobel Prof. Alvin Roth
A volte nella medicina capita che grandi scoperte scientifiche impieghino molti anni ad arrivare ai pazienti, perché non sostenibili economicamente o perché le questioni di bioetica che sollevano sono molto complesse e vanno affrontate con la massima cautela.Questo succede per esempio nel mondo dei trapianti d’organo, ambito in cui lavoro da moltissimi anni come chirurgo.
Negli ultimi 50 anni i progressi nei trapianti sono stati impressionanti. I trapianti sono passati da un indice di successo quasi vicino allo zero a risultati davvero ottimi: per esempio nel trapianto di rene si è raggiunta una percentuale di successo che supera il 95-97%. Inoltre, è cresciuta la sensibilità a fornire indicazioni circa il consenso alla donazione dei propri organi dopo la morte e anche in Italia sono state scritte delle leggi su questi temi (la legge sui trapianti del 1999 e, più recentemente, nel 2017, la legge sul testamento biologico).
A fronte di questi grandi successi della medicina sono però purtroppo ancora tanti nel mondo i pazienti in attesa di un trapianto perché non ci sono organi sufficienti per tutti coloro che ne hanno bisogno.
In un certo senso, questa pratica può essere quasi considerata vittima di se stessa: a un incremento della capacità (e necessità) di intervento non è ancora corrisposta una disponibilità adeguata, per via di diversi ostacoli biologici e sociali.
La scarsità degli organi è il limite principale al trapianto di rene nei paesi ad alto indice di sviluppo. In generale sia in Europa sia negli Stati Uniti non più del 15% delle persone in lista di attesa riesce ad essere trapiantato.
Inoltre, milioni di pazienti nei paesi in via di sviluppo con malattia renale allo stadio terminale muoiono perché non possono permettersi un trapianto, nonostante esistano potenzialmente numerosi reni compatibili, anche da donatori viventi. Solo nell’Africa Sub-Sahariana ogni anno muoiono circa 5 milioni di persone perché non hanno accesso né all’emodialisi né al trapianto di rene.
A questo si aggiunge il grande limite della compatibilità tra donatore e ricevente. Nella maggior parte dei Paesi l’unica situazione in cui la donazione da parte di una persona è consentita dalla legge è quando esiste un legame familiare o d’affetto con il ricevente. Purtroppo, paziente e potenziale donatore spesso non sono compatibili per gruppo sanguigno o altre caratteristiche del sistema immunitario.
Per questo problema esiste oggi una potenziale soluzione che viene dalla mente di un uomo di scienza: la teoria del matching elaborata da Alvin Roth, professore all’Università di Stanford e Premio Nobel nel 2012, con il quale collaboro.
La teoria di Roth è stata formulata proprio prendendo come caso studio il problema della compatibilità tra coppie di donatori e riceventi nei trapianti di rene.
Per spiegare in parole semplici come funziona farò un esempio: se io avessi bisogno di un rene perché rischio nel giro di poche settimane o pochi mesi di dover ricorrere alla dialisi e mia figlia volesse per affetto donarmelo, non lo potrebbe fare nel caso in cui mia figlia fosse di gruppo sanguigno B e io di gruppo A, perché incompatibili.
L’algoritmo creato da Alvin Roth dimostra che in questo stesso momento esiste sicuramente nel mondo un’altra coppia di persone legate da affetto e nella stessa situazione con gruppi sanguigni differenti. La sua idea è quindi quella di creare una sorta di catena nel pianeta tra persone che vorrebbero donare un rene a una persona cara, ma non possono farlo perché sono incompatibili. Mettendo insieme, in una sorta di matching globale, tutte queste persone, si potrebbe, in teoria, arrivare a trapiantare di rene tutti quelli che ne avessero necessità.
A partire dalla teoria del matching, è stato creato un progetto chiamato Global Kidney Exchange Program, un sistema internazionale di donatori e riceventi di organi compatibili, presentato nel 2016 da Michael A. Rees, Alvin Roth e altri scienziati.
I casi clinici delle coppie che entrano a far parte del programma vengono analizzati da un algoritmo che cerca il match migliore tra pazienti in attesa e donatori, affinché i primi possano trovare un organo compatibile in un tempo idoneo alla loro sopravvivenza.
Il Global Kidney Exchange Program potrebbe essere importante non solo in termini di salute ma anche di sostenibilità economica dei sistemi sanitari.
Non c’è dubbio che quando Alvin Roth ha iniziato a studiare questa ipotesi, lo ha fatto con la sua cultura da economista. In tutti i Paesi in cui il costo della dialisi è sostenuto dallo Stato oppure da assicurazioni private, dal momento che un paziente in emodialisi deve essere sottoposto a tredici sedute di emodialisi al mese per dodici mesi, il costo delle cure, assieme ai farmaci, può arrivare a circa 100.000 euro. Un trapianto di rene il primo anno può costare circa la stessa cifra.
Se noi idealmente immaginiamo che un paziente in dialisi sopravviva per almeno dieci anni (ma per fortuna in Paesi come l’Italia si vive molto di più di dieci anni), possiamo immaginare un costo per il servizio sanitario, pubblico o privato che sia, di circa un milione di euro; se invece immaginiamo che quel paziente, proprio grazie all’algoritmo di Alvin Roth, venga trapiantato il primo anno, avremo speso 100.000 euro quell’anno e probabilmente non più di 15.000 euro tra controlli e terapie in ognuno degli anni successivi. Quindi, alla fine del primo periodo di 10 anni, avremo risparmiato sui costi dell’assistenza sanitaria oltre mezzo milione di euro, ma soprattutto avremo restituito a una persona una vita piena.
Tra l’altro non è da trascurare, oltre a quello economico, anche il vantaggio sociale.
Uno degli obiettivi del programma di Global Kidney Exchange è proprio fornire assistenza sanitaria di qualità, inclusa ma non limitata al trapianto, per i pazienti con malattia renale allo stadio terminale nei paesi meno industrializzati, che non avrebbero nessuna possibilità di accesso alla dialisi o al trapianto, e quindi morirebbero.
Se riesco a trapiantare il rene a un paziente italiano perché trovo un’altra coppia compatibile in Etiopia, dove un paziente potrebbe non avere neanche la possibilità dell’emodialisi, la persona in Etiopia vivrà perché avrà un rene nuovo, e quella in Italia vivrà meglio – una volta trapiantata – costando molto meno al Servizio Sanitario Nazionale. Credo che questo sia un ottimo esempio di quella che in inglese si definisce una win win situation, nella quale vincono tutti.
Non mancano però le critiche. Una delle preoccupazioni sollevate da grandi professionisti come Francis Delmonico, professore emerito all’Università di Harvard, è il fatto di come controllare dal punto di vista etico e legale questo scambio internazionale di organi.
Se si stabilisce una catena internazionale di persone, che ha come movente sempre l’affetto, ma nella quale entrano in gioco anche figure non sempre emotivamente correlate tra di loro, c’è il rischio che il crimine orribile del traffico di organi possa in qualche modo insinuarsi.
Credo che la differenza tra il crimine del traffico di organi, presente in alcuni Paesi, e l’idea alla base del Global Kidney Exchange Program risieda nel fatto che questo progetto è completamente trasparente, verificabile e controllabile, e che i trapianti avvengono o avverrebbero in centri medici ben identificati e qualificati.
Il Global Kidney Exchange nel 2017 ha avuto l’endorsement dell’American Society of Transplant Surgeons (la società che riunisce tutti i chirurghi americani nel settore dei trapianti). La prima catena è già stata realizzata negli Stati Uniti e il successo è pari al 100%.
Il 22 gennaio 2018 il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Prof. Walter Ricciardi, nel suo ruolo di membro dell’Executive Board della Organizzazione Mondiale della Sanità ha promosso tale idea.
Sono convinto che non bisogna avere paura di un’innovazione semplicemente perché abbiamo paura di noi stessi e della nostra incapacità di sorvegliare gli aspetti etici. Soprattutto quando il beneficio per gli esseri umani, ricchi o poveri, indipendentemente dalla cittadinanza, potrebbe essere davvero grande.
Prof. Ignazio Marino